Condividiamo l’intervista di Francesca Del Vecchio a Matteo Lancini per La Stampa.
«I giovani sono davvero ingordi di “cose” e per questo uccidono per un paio di cuffie oppure se il loro è uno stato di disperazione tale che li porta a compiere gesti che si potrebbero prevenire con l’ascolto?». Matteo Lancini, psicologo e presidente della Fondazione “Minotauro”, parte dal caso di Manuel Mastrapasqua – il 31enne ucciso a coltellate da un 20enne a Rozzano – per spiegare che i ragazzi nella società «non sono né accettati, né responsabilizzati. Al contrario sono sempre più infantilizzati».
Perché i ragazzi di oggi sono così disperati?
«È insoddisfazione, frustrazione per cose molto diverse: la mancanza di prospettive, la crisi climatica, l’assenza di ascolto da parte degli adulti, le guerre. Dovrebbero occupare le città e invece cercano in internet un luogo dove condividere il disagio. Finiamola di demonizzare la rete: è l’identità di questa generazione e criminalizzandola criminalizziamo anche loro».
Il ragazzo che ha ucciso era uscito con un coltello perché «era stata una brutta giornata». Cosa significa?
«Non è la paura del mondo esterno, ma la risposta a una paura interiore di solitudine. Ed è evidente che arrivino a gesti di tale violenza a causa di una profonda disperazione. In alcuni casi, la proiettano su se stessi, in altri verso il prossimo».
È corretto definirlo un movente “banale”?
«Non è mai “banale”: il disagio e la sofferenza se non trovano vie di comunicazione con l’altro, se non trovano una opportunità di condivisione, diventano gesti disperati. Fenomeno sempre più frequente nei giovani».
Spesso si dà la colpa a famiglie che li viziano. È così?
«Non credo che il problema sia il troppo amore. Al contrario, questi sono segnali di una generazione che non è stata amata per quello che è, in una società che incentiva la competizione e s’interessa più al profitto che alla sfera affettiva. Credo serva più che mai un’alfabetizzazione emotiva degli adulti che smettano di sostenere che la rabbia dei bambini aumenta per colpa dei videogiochi. E quella degli adolescenti per colpa della trap».
Pare che il padre del ragazzo lo abbia aiutato a scappare.
«Ogni volta cerchiamo il grande colpevole e se non lo troviamo in internet lo cerchiamo nei genitori: vuol dire aver perso l’umanità, come accaduto con il padre di Filippo Turetta dopo la diffusione della conversazione in carcere. Non credo, comunque, che la prima cosa che viene in mente a un genitore quando un figlio confessa un omicidio sia quella di allertare le forze dell’ordine».
Il fatto che avesse dei precedenti è un indicatore?
«Non tutti quelli che hanno un precedente penale arrivano a gesti violenti. Ogni ragazzo è diverso dall’altro e l’incontro con un adulto che gli chiede “tu chi sei?” è il momento in cui sperare che la disperazione venga comunicata. Il dialogo rende meno probabile che certi comportamenti vengano messi in atto».