Condividiamo l’articolo di Annalisa Cuzzocrea per D di Repubblica con l’intervista a Matteo Lancini sui vissuti degli adolescenti in questi mesi di pandemia e di riaperture.
La vostra grazia senza paragone, ultima, è che la vostra bellezza non vi riguarda”. Scriveva così, Elsa Morante, nel 1968, in una raccolta di poesie bellissima come Il mondo salvato dai ragazzini. Non vi riguarda, scriveva, ed è questo che abbiamo detto ai ragazzini nel tempo della pandemia. Il Covid non vi riguarda, la malattia non vi riguarda, la morte che potete vedere o causare, non vi riguarda. State zitti, buoni, chiusi nelle vostre stanze. Rinunciate agli abbracci, al calcetto e ai primi baci. Rinunciate al banco da dividere, allo sport, a meno che non sia agonismo: l’agonismo ve lo facciamo ricominciare, le gare sono importanti, chissà poi perché. Divertirsi no. Il superfluo no. Abbiamo deciso noi, per loro, cosa fosse superfluo. E a volte ci è sembrata superflua perfino la scuola. Di certo pericolosa. Perciò, dopo aver passato anni a dire che è quella la cosa più importante, e che “tu non hai
idea, potessi tornarci io”, ed “esci da quel telefonino e da quella Play station, che vita è questa, fai qualcosa di bello”, dietrofront, abbiamo corso al contrario. Abbiamo chiesto pazienza, pazientate, mentre noi tornavamo alle nostre vite e le organizzavamo per renderle sicure. Ma decidevamo che le loro non potevano esserlo. Sono stati fin troppo pazienti, i ragazzi. Le manifestazioni, le proteste in cui chiedevano un ritorno a scuola, ma a una scuola sicura, le piccole occupazioni ricominciate timide, simulacro di quelle del passato, sono stati piccoli gesti di reazione. Niente di rivoluzionario. Niente che trasmettesse rabbia. Perché la rabbia, molti, l’hanno usata contro se stessi. Il male hanno deciso di farlo ai loro corpi. E abbiamo dovuto aspettare un anno e gli allarmi lanciati dalle neuropsichiatrie infantili di mezz’Italia per capire che forse il livello di guardia era superato e c’era bisogno di accendere un faro. Sono aumentati gli episodi di autolesionismo, i tagli inflitti al corpo, i tentativi di suicidio, la bulimia, l’anoressia, la depressione, i primi segni di malattie psichiche. Qualcuno è riuscito ad arredare il suo tunnel e a viverci dentro. Ha creato piccole bolle di amici. Ha cercato spazi di indipendenza anche nell’anno più rinchiuso di sempre. O semplicemente, si è adattato al silenzio e agli spazi virtuali diventati per molti una comfort zone da cui d’ora in poi sarà perfino difficile uscire. La prima ora di lezione in pigiama, la telecamera spenta per sbirciare il vocabolario, più tempo per sé e non a rincorrere autobus o orari impossibili. Qualcuno però quel tunnel non riesce ad attraversarlo. E ci sarà bisogno di tirarlo fuori. Dovremo provarci tutti, non i genitori, non gli amici, tutti. La Generazione Z, come la chiamano gli adulti che si danno arie da sociologi, sarà quella che tra qualche anno ci porterà sulle spalle. Il suo benessere non è accessorio. Il suo futuro non lo è. E non dovrebbe servire il voto ai sedicenni, perché i politici se ne accorgano e comincino a pensarci. Dovrebbe essere normale, dopo oltre un anno di pandemia, chiederci come fare a restituire ai ragazzi che hanno perso molto, qualcosa da cui ripartire. De Agostini ha pubblicato un libro in cui Daniele Grassucci e Federico Taddia chiedono agli adolescenti, proprio a loro, chi sono. Chi sono? Io. Le altre. E gli altri, un lavoro fatto ponendo oltre cento domande a 30mila ragazze e ragazzi di oggi. Una fotografia, o un selfie, in cui scopriamo che la scuola è ancora al centro del loro mondo. Che lo sono gli amici ancor più dell’amore. Che la maggior parte delle volte in cui provano rabbia, cercano di reprimerla. Che se provano dolore, per lo più lo nascondono. Che si fidano più di Chiara Ferragni che di qualsiasi politico (e prima vengono la mamma, Harry Styles, i professori e i nonni), ma pensano che l’impegno politico sia fondamentale. E che lo sia il volontariato. Il 50% pensa che sesso e amore non vadano per forza insieme, ma il 35 crede che se c’è una cosa dev’esserci anche l’altra. L’80% è certo non ci sia un’età giusta per la prima volta, bisogna solo sentirsi pronti. Solo il 10% è pronto a interventi estetici per cambiarsi. L’ossessione dell’immagine, uno dei cliché che attribuiamo loro, non è presente in queste interviste quanto ci aspetteremmo. Dell’altro, il 38% apprezza la simpatia, solo il 14 l’aspetto fisico. E la felicità arriva da amici, famiglia, musica, amore, piccole cose.
Non sono poi così alieni, questi esseri in trasformazione con le cuffie perennemente alle orecchie che ci abitano accanto. Non sono poi così diversi, anche se la prima paura – per il 26% – è il fallimento, seguito dal non riuscire a trovare un senso alla propria vita, dalla solitudine, solo dopo vengono morte, mancanza di affetti, assenza di amore.
Matteo Lancini è psicologo e psicoterapeuta a Milano: «È come se la pandemia avesse scoperchiato problemi legati all’adolescenza che già c’erano. Ad aumentare non è tanto l’idea di un conflitto, di un’opposizione: le occupazioni che ci sono state erano sostenute dai genitori, le madri procuravano tamponi per tutti, i ragazzi che si erano accampati in cortile hanno trovato bidelli che gli dicevano di entrare. Niente trasgressione, niente rabbia. Il conflitto, quando si esprime, si esprime sul corpo, con i tagli, i disturbi alimentari, i tentativi di suicidio, la sparizione sociale come ritiro del sé. Le risse che ci sono state, almeno quelle a favore di telecamera, sono state organizzate quasi come rappresentazioni, costruite per riappropriarsi di uno spazio. Risse per fare audience, per postare una story sui social».
Ma Lancini trova preoccupante anche altro. Il ritorno a scuola, ad esempio, che molti hanno considerato salvifico, se gestito male può essere un trauma.
«Vedo troppi professori che usano questo tempo come raccolta dei voti, con verifiche a raffica, come se l’unica cosa che abbia senso in questo momento sia la valutazione e non il rapporto, la relazione, gli incontri». Non è pensando a bocciare i ragazzi, quest’anno, che li aiutiamo a uscire dal tunnel. Non è riempiendoli di compiti e di ansia per un tempo perduto che non è certo colpa loro. Che hanno subito, su cui non hanno avuto alcun potere. «Alla scuola italiana non capiterà più forse un’occasione per cambiare come questa. Quello che io ho proposto sono scuole aperte 24 ore al giorno, connesse a internet, spazi sociali inclusivi e accoglienti. Non per l’estate, tutto l’anno. Posti di aggregazione in rete col territorio, con cinema, teatri, centri culturali. Scuole laboratorio dove si può fare di tutto, dai corsi d’arte allo sviluppo di videogiochi. Può sembrare una visione onirica, illusoria, ma c’è bisogno di immaginazione in questo momento. C’è bisogno di idee nuove. Non puoi dire a un ragazzo esci dai social, esci da internet, se non costruisci un’alternativa». La dimensione del divieto, secondo Lancini, non serve a nulla. Quanto alla politica, invece di pensare a sensibilizzare i ragazzi, vedendoli come soggetti passivi da educare, deve includerli: «Bisogna convocarli, farli sentire parte del processo, coinvolgerli in iniziative civiche di protezione della popolazione. Mandare loro nei mercati davanti alle file di vecchietti ammassati per il pollo allo spiedo a dire: “attenti, distanziatevi, mettete le mascherine”». Infantilizzarli non serve a nulla. Fargli i sermoni, ancora meno. Renderli cittadini attivi, è la risposta. E forse non serviva una pandemia, per rendersene conto