Condividiamo l’articolo di Matteo Lancini pubblicato su La Stampa
27 febbraio 2025
Sopravvivere alla morte delle persone è la condizione della nostra esistenza. In vita osservi, accompagni, incontri la morte degli altri, vivi la loro scomparsa. La morte testimonia la vita, dona senso alla stessa esistenza, costringe a sentire in modo diverso, può anche renderti più vivo, emozionato, acceso, a patto di riuscire a stare nel dolore, a tollerarlo, a integrarlo nel tuo stato affettivo e mentale, nel tuo funzionamento psichico. La morte di una persona cara cambia la vita. Comunque, in qualche modo, la trasforma. La morte di un genitore anziano è un drammatico passaggio necessario, evolutivo. Così come lo può essere la morte di un nonno o di una nonna, di uno zio o di una zia, di una sorella, di un partner o di un amico. Sopravvivere alla morte di un figlio o di una figlia è però un’esperienza diversa, che non riguarda tutti, che non ha nulla a che fare con qualsiasi altro accadimento della vita. Assistere in vita alla morte di un figlio rappresenta l’esperienza più terribile che ti possa capitare, il terrore, il baratro, il dolore che si trasforma in angoscia senza fine, illimitata. Certo contano le circostanze della morte, se improvvisa e violenta o per malattia, il suicidio o un incidente, ma la morte di un figlio giovane, giovanissimo, di un bambino o di un adolescente è comunque, al di là di ogni contingenza, ciò che più si avvicina alla fine della speranza. Il rischio è la perdita di senso, del significato stesso dell’esistere. Sentimenti sempre unici, terribili, un groviglio di emozioni che toglie il fiato solo a pensarci e che invece sei costretto a vivere, anzi emozioni che vivono e dominano fino a diventare te stesso, non si prova dolore, si diventa dolore. Non essere morto tu, non aver fatto abbastanza, non aver protetto, non esserci stato come dovevi esserci, non aver intuito e capito, insomma essere sopravvissuto, il dramma inconsolabile di un genitore che incontra un figlio o una figlia che sono morti. I genitori di adolescenti che si sono tolti la vita, i sopravvissuti alla morte volontaria di un figlio, riescono in alcuni casi a dare vita a un’associazione o a un ente che in nome del figlio o della figlia sensibilizzi chi è ancora in vita sul tema del suicidio giovanile, sull’importanza di parlarne in ogni relazione quotidiana. Trasformano la tragedia in un’esperienza preventiva, l’evento più straziante e terribile in un progetto vitale. La morte di un bambino o di un adolescente è la morte del futuro, solo in nome di quella stessa morte è possibile provare a rianimarlo, trasformarlo prima in una fievole luce di speranza e poi in una nuova prospettiva futura. Si può vivere ancora, ma in nome della morte. Il dolore per la morte di un figlio o di una figlia non passa mai, ma il futuro è vivo.