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Condividiamo l’intervista di Monica Coviello a Matteo Lancini per Vanity Fair.

Niente armi giocattolo, quest’anno, sulle bancarelle dei mercatini di Natale di Torino. Lo ha deciso l’assessore comunale al Commercio, Paolo Chiavarino, che ha vietato pistole, fucili, carri armati e soldatini all’insegna di un Natale più etico e lontano da ogni simbolo di guerra.

È giusto bandire questi giocattoli? È davvero un modo efficace per ispirare una mentalità pacifista? Lo abbiamo chiesto a Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro di Milano. «Non vorrei che, vietando ai piccoli le pistole giocattolo, gli adulti pensassero davvero di averli educati alla pace», ci risponde.

Perché, non è così?

«Gli adulti, con certe iniziative, rischiano di privare i bambini di possibilità espressive, pensando di impartire loro delle lezioni educative. Poi magari sono gli stessi adulti, nella loro vita quotidiana o in televisione, a mostrare ai piccoli il conflitto e le battaglie, che si concretizzano ogni giorno attraverso il mancato rispetto e la prevaricazione dell’altro».

L’arma giocattolo, dunque, può avere un’utilità?
«Sì: può avere una funzione di simbolizzazione degli aspetti aggressivi, legati a un corpo che si trasforma. In questa società il corpo è posto “sotto sequestro”, perché visto come aggressivo e distruttivo: gli aspetti del movimento e del conflitto sono repressi. Questo porta i ragazzi a spostare l’attenzione sui videogiochi e sulla Rete, ma in realtà non ci sta bene nemmeno che impugnino delle armi virtuali. E allora la domanda è: siamo sicuri che i nostri modelli educativi, più che essere finalizzati alla pace, non diventino uno strumento ci serve per negare degli aspetti fisiologici della crescita?».

È sempre stato così?
«No. In passato questi aspetti della crescita erano più tollerati, e in questo modo i ragazzi sviluppavano una mentalizzazione del proprio corpo più sana. Oggi i genitori guardano con sospetto anche giochi come palla avvelenata o palla prigioniera, che hanno nomi che evocano il conflitto, la battaglia. Una volta, invece, non erano considerati un’istigazione alla una mentalità aggressiva, ma giochi simbolici attraverso i quali, attraverso le regole, i bambini e i preadolescenti potevano liberamente tirarsi pallonate senza, per questo, essere guardati come dei precoci guerrafondai. Ben venga qualsiasi iniziativa che valorizzi l’educazione alla pace, ma attenzione a non chiedere sempre ai bambini e agli adolescenti di adattarsi alle nostre idee, spacciate per educazione, ma mosse perlopiù dalle nostre angosce».

Il conflitto, quindi, non è da reprimere?
«Il conflitto, fisiologicamente, fa parte della crescita e, anche se gli adulti lo inibiscono, non può essere eliminato. E non bisogna confondere con la guerra il gioco, che può anche essere un utile strumento formativo».

Se nostro figlio ci chiede armi giocattolo, quindi, gliele possiamo regalare?
«Non necessariamente, ma se si decide di privarlo di questo giocattolo, bisogna spiegargli il perché e dargli un’alternativa, illustrandogli gli altri canali che ha a disposizione per esprimere quei tratti “conflittuali” e aggressivi che gli servono per mentalizzare la propria rabbia e i propri sentimenti. L’aggressività e la violenza, se non esternalizzati, rischiano di imboccare canali ben più pericolosi del gioco, come i ritiri sociali o gli attacchi al proprio corpo».