Seleziona una pagina

Condividiamo l’intervista di Chiara Affronte a Matteo Lancini per Il Salvagente sui vissuti degli adolescenti odierni in questi mesi di covid.

Troppo presto per trarre conclusioni definitive sugli effetti psichici del Covid sugli adolescenti. Anche Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente del Minotauro di Milano, istituto specializzato nel disagio adolescenziale è di questa opinione. Di certo, specie negli ultimi mesi, c’è stata una “esacerbazione di disagi già presenti che la situazione ha amplificato”. Aumento degli attacchi autolesivi, disturbi alimentari: modalità già presenti, esplose anche in ragazzi che avevano disagi più silenti.
Per capire che conseguenze si svilupperanno bisognerà osservare ciò che accadrà nel tempo. Per Lancini dipenderà tutto “da come gli adulti sapranno utilizzare la crisi, cosa avranno appreso, come la gestiranno: su questo c’è molto da fare”.
Dottor Lancini, a cosa si riferisce?
Mi chiedo ad esempio se gli adulti dimostreranno di avere capito le contraddizioni di alcuni modelli educativi, gli stereotipi sull’adolescenza legati ad esempio all’uso di internet e della rete che sembravano, prima delle misure restrittive, il male assoluto: i modelli educativi erano costruiti sul sostenere che non si dovesse usare il cellulare, che fosse necessario ridurre l’utilizzo dei videogiochi, ma poi, senza vergogna, abbiamo cambiato radicalmente visione quando ci siamo accorti che avevamo costruito una società in cui la comunicazione digitale era fondamentale. Ecco, dipenderà molto da come famiglia, scuola e istituzioni politiche gestiranno la situazione e dove si vorrà investire su risorse – anche quelle del Next generation Ue – che su interventi.
Cosa intende quando parla di contraddizioni?
Sono quelle che indico da anni. Abbiamo costruito un sistema in cui le esperienze virtuali si sono intrecciate con la realtà. La diffusione di videogiochi e social network non è certo un’invenzione delle nuove generazioni, ma è frutto di modelli educativi familiari e sociali che hanno chiuso tutti gli spazi di gioco anche prima della pandemia. Noi adulti abbiamo costruito un sistema di virtualità. Oggi – prendendo un’espressione coniata da Luciano Floridi – si vive on life: dentro questo sistema ci sono adulti che usano a dismisura internet. Tutto accade sempre prima sui social: le crisi di governo, le reazioni rispetto alla morte di personaggi noti. Gli unici che dovevano spegnere il cellulare erano gli adolescenti. Improvvisamente abbiamo chiesto loro di mettersi 5 ore davanti allo schermo, di tenere la telecamera sempre accesa. Questo perché questa volta la ‘vita finta’ si chiamava Dad.
La Dad è stato un male?
Tutt’altro, ritengo che sia stata un’occasione per mettere alla prova nuovi modelli didattici e mi auguro che qualcosa resti. Non è un problema di mezzo. Da tempo sostengo che la scuola dovrà essere sempre più aperta e connessa perché internet fa parte del mondo e del lavoro. La scuola ha sbagliato quando si è preoccupata se i ragazzi copiassero durante la Dad, quando esistono modelli di verifica nel resto d’Europa – le prove open book – nei quali ciò che per alcuni è copiare in realtà è un ulteriore momento di verifica. Quindi chiediamoci se sapremo usare davvero internet, se saremo in grado di pensare e usare luoghi alternativi, perché se arriverà un virus che costringerà i ragazzi ancora in casa, non dovremmo più sentire esperti che ci dicono che sono dipendenti da videogiochi… Ciò che accadrà, insomma, dipenderà anche da quanto gli adulti sapranno affrontare la fragilità dei ruoli. Perché di questo si tratta: dell’incapacità del mondo adulto di indentificarsi con i ragazzi e con i loro bisogni. Occorrono modelli che ingaggino i ragazzi, di scuole aperte il più possibile come vera alternativa alla vita in casa e non solo luoghi in cui fare lezione. Se i ragazzi non percepiranno che si sta facendo questo, staranno male e si faranno carico loro stessi delle fragilità degli adulti: come è accaduto in pandemia non contesteranno il sistema ma attaccheranno se stessi.
Sta dicendo che occuparsi degli adolescenti, a questo punto, è anche occuparsi di noi adulti…
Proprio così. Se non ci si rende conto che il ritorno a scuola non può essere raccogliere voti ma semmai raccogliere speranze, il momento più alto della relazione, non si è capito nulla.
Cosa si sarebbe potuto fare nel lockdown?
La scuola in molti casi ha fatto ciò che doveva: una didattica a distanza in cui si sono poste domande e si sono costruiti saperi. Era necessaria una scuola che continuasse a svolgere una funzione di contatti al di là dell’interrogare.
E la famiglia?
La famiglia deve accettare che il dolore e la fragilità fanno parte del crescere. Bisogna avere il coraggio di parlare della morte e non rimuovere il dolore. Ciò che manca davvero è un’educazione alle emotività negative, rimosse dalla società. La pandemia ha riportato al centro questi aspetti, ha imposto il parlare della morte. Si crede che gli adolescenti non siano in grado di parlare del dolore e della fatica della crescita; loro la vivono e potrebbero parlarne. Ma gli adolescenti vedono adulti troppo fragili, non in grado di affrontare il dolore e quindi non lo esternano, non chiedono aiuto. Non hanno il coraggio di parlarne con chi ritengono fragile. Per alcuni ragazzi il Covid è stata una ‘scusa’per poter ‘dire’ il proprio dolore, liberando le coscienze di famiglie e scuola.
Hanno finalmente potuto dire, gridare, che stavano male…
È necessaria una responsabilità adulta che convochi i ragazzi, che prenda atto della realtà. Ci sono ottimi movimenti in questo senso. C’è gente nelle istituzioni e nelle scuole che si è mossa per lavorare e prendersi in carico sofferenza, disagi o anche solo l’assenza di un futuro per i giovani. Chi non lo fa e, addirittura, attacca i ragazzi caricandoli di colpe inesistenti, ha un ricordo sbiadito della propria adolescenza, che guarda con rimpianto.
Non sarà che sono gli adulti le vittime della paura?
Le paure sono enormi e sono anche comprensibili perché dipendono dal mondo che abbiamo creato e da come si veicola a livello mediatico l’idea di un pericolo continuo. Però bisogna sapere che se si chiudi un figlio in casa l’unica esperienza che ha è internet. E che i ragazzi passano tanto tempo sui social, perché lì socializzano senza il controllo.
Quindi, tornando al tema iniziale, i numeri di casi di problemi psichici e psichiatrici aumentati durante la pandemia sono comunque frutto di una situazione pregressa?
È evidente che una crisi amplifica le problematiche. Ma le carenze nel supporto c’erano già ed è ciò di cui si discute a tutti i tavoli. Non è una novità che non ci siano posti e risorse sufficienti per gli adolescenti con disagio.
Sono decenni che si parla di attenzione all’adolescenza senza agire.
L’attenzione all’adolescenza è intrisa di luoghi comuni e stereotipi vecchi. Si parla di trasgressione ma gli adolescenti oggi non sono trasgressivi, sono poco interessati al sesso. Sono interessati a vivere nella mente dell’altro e non nel corpo, sono interessati alle relazioni.
Come mai?
Perché la società è meno sessuofobica rispetto al passato, si assiste a una sovraesposizione dei corpi, il sé conta più del legame, che è visto anche come rischioso. L’esperienza sessuale viene fatta più che altro per mettersi al pari con gli altri. Posso assicurare che il sesso in pandemia non è mancato. È mancata la relazione. Perché i ragazzi sono super esperti di relazioni, cresciuti in contesti familiari in cui l’identificazione con la mamma che intesse contatti è forte. Sono ragazzi che, se trovano nella loro vita delle figure adulte che apprezzano, le seguiranno, le sceglieranno come guide.
È un bene o un male che non siano interessati al sesso?
Non esiste bene o male. È un principio di realtà: sono ragazzi che se stanno bene, stanno benissimo. Se sono a disagio e non riescono a vivere nella mente dell’altro attaccano sé stessi. Gli adolescenti non sono trasgressivi, non sono onnipotenti: occorrono modelli diversi che comprendano esperti di relazione e adulti competenti.