Condividiamo l’articolo di Antonio Piotti per vita.it.
Mercoledì è morta una ragazza. Si è tolta la vita. L’hanno trovata nel bagno dell’Università Iulm di Milano con una sciarpa al collo e un biglietto d’addio. Chiede perdono alla madre e al padre. C’era (anche) un esame in università e lei non era riuscita a sostenerlo.
Sono tanti i ragazzi che si uccidono: la cronaca riporta le ragioni (le ipotesi) più disparate ma è un fatto che, dopo il Covid stiamo assistendo a una specie di pandemia del dolore psichico che sembra colpire soprattutto l’universo femminile. Non che prima le cose andassero molto meglio: negli Stati Uniti, nel 2018 il suicidio è diventato la prima causa di morte per i giovani. In Italia, già prima della pandemia, a seconda degli anni, era la seconda o la terza.
Perché muoiono tutti questi ragazzi? Il Covid, dicevamo ha aggravato le cose: l’isolamento prima, la difficoltà di ripresa dopo hanno reso particolarmente complesso il cammino evolutivo adolescenziale i sintomi della sfera dell’ansia si moltiplicano e compare un profondo disagio sociale.
Ma il Covid da solo non basta. Bisogna pensare ai processi di idealizzazione immaginari presenti nel contesto sociale contemporaneo, al bisogno strenuo di apparire performanti, al riconoscimento che deve essere attribuito, sui social, dalla Rete; all’individualismo, alla mancanza dei legami sociali, alle aspettative esagerate che finiscono sempre per rendere intollerabile il fallimento e insopportabile la ferita narcisistica che esso comporta.
Perché muoiono tutti questi ragazzi? Il covid, dicevamo ha aggravato le cose. Ma il Covid da solo non basta. Bisogna pensare ai processi di idealizzazione immaginari presenti nel contesto sociale contemporaneo, al bisogno strenuo di apparire performanti. Bisogna pensare allo scompenso affettivo, alla solitudine prodotta dalla mancanza di affetti significativi
Bisogna provare a immaginare la vergogna distruttiva che si prova di fronte al momento nel quale si verrà smascherati e sarà necessario ammettere davanti a tutti di aver fallito.
Bisogna pensare allo scompenso affettivo, alla solitudine prodotta dalla mancanza di affetti significativi e di figure di riferimento cui rivolgersi per chiedere aiuto, bisogna pensare a un dolore psichico talmente profondo che non permette neppure di pensare, una sofferenza così forte per cui si comincia a credere che, se la si fa finita, allora anche il dolore, necessariamente, si placherà.
All’inizio la tentazione della morte è solo un richiamo fuggevole un’idea che viene tenuta a freno: si tenta di eluderla con vari stratagemmi: facendosi per esempio del male, ferendosi, scottandosi con una sigaretta, mordendosi le labbra e le mani, strappandosi i capelli. In una prima fase, questo dolore fisico sembra funzionare: produce sollievo, diminuisce la tensione, permette di continuare.
Oppure ci si può nascondere, ci si può ritirare: evitando ogni contatto sociale si evita anche la vergogna, ci si sente protetti e difesi.
Alla lunga però la strategia difensiva non funziona più, la tensione sale a dismisura l’ansia sembra tale da togliere il respiro e non compare più nessuna via d’uscita. Ci si sente come su una macchina che percorra un vicolo cieco dirigendosi contro un muro: l’impatto sarà per forza letale.
Oppure ci si avverte in un lento precipitare come se si scivolasse in un abisso senza avere più nella a cui appigliarsi e il paradosso è che alla fine, quell’abisso a cui ci si abbandona diventa invitante e quasi seduttivo: il terrificante attrae e occorre una certa forza per resistere alla tentazione e bisogna sperare adesso che qualche altro giovane, colpito da questo evento non avverta la stessa minacciosa inquietudine. Fa bene l’università a chiedere che non si faccia troppo rumore sulla faccenda ma occorre che in ogni scuola, in ogni luogo che raccoglie ragazzi, la prevenzione del rischio suicidale diventi una priorità.
Occorre interrompere quella congiura del silenzio per cui si pensa che, per mettersi al sicuro da certi eventi, la cosa migliore sia non parlarne. Dobbiamo parlare ai ragazzi della morte e anche del desiderio di morire, dobbiamo intercettare le loro fantasie mettere a nudo i fantasmi di morte e costruire un’efficace rete preventiva. Altrimenti non possiamo illuderci, le cose i ripeteranno e raccoglieremo ancora commossi cordogli e ripensamenti tardivi.
Occorre interrompere quella congiura del silenzio per cui si pensa che, per mettersi al sicuro da certi eventi, la cosa migliore sia non parlarne. Dobbiamo parlare ai ragazzi della morte e anche del desiderio di morire
Ricostruire la speranza nei giovani è possibile ma occorre che gli adulti sappiano rompere la barriera generazionale, tendere loro la mano e ascoltarli prima che l’abisso li inghiotta. Talvolta anche solo un ascolto attento, una vicinanza non banale possono bastare per dare a questi giovani la sensazione di non essere soli e di non essere inutili.